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Il Castello

Storia e Tradizioni

Il Castello di Albidona


Non è rimasta una pietra del castello di Albidona; rimane solo il suo nome per indicare il quartiere più alto del paese, vicino alla chiesa di san Michele. Le ultime costose ricostruzioni di certe mura non possono assolutamente corrispondere all’antica struttura, semmai potrebbero servire alla nostra memoria, per dire che “qui c’era il Castello”.
Fino al 1960, si vedevano robustissimi muri abbarbicati sulla roccia del lato est, il resto di una torre circolare situata dove oggi sono piantate le tre croci del
Calvario, raccontano che alcune grotte sotterranee “venivano usate come prigioni e poi anche come rifugio di briganti”, e la cisterna, che era certamente al centro del Castello. Questi pochi ruderi dell’antico maniero albidonese sono stati completamente distrutti verso il 1970-75, durante i lavori della piazza antistante la Chiesa madre e nella costruzione della strada di circonvallazione, ma soprattutto attorno al ‘60, per l’installazione del serbatoio dell’acqua potabile. Quella bianchissima cresta rocciosa che si vedeva da tutte le parti l’aveva rispetatta pure don Rinaldo Castrocucco, e la cupola del cemento armato poteva collacarsi in altra parte.
C’erano poche notizie storiche su questo castello: solo un documento del 1517, conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli dove è scritto: “Rinaldo Castrocucco per relevio per morte di Bernardino per padre per lo castello di Alvidona”.
Se il castello esisteva già nel 1500, vuol dire che esso fu costruito prima del periodo dei
Viceré spagnoli, che signoreggiarono nel Regno di Napoli, dagli inizi del 1500, fino al 1714.
Quindi, sorse senz’altro, nell’epoca degli Aragonesi (1435-1506) e si mantenne in piedi durante la prima signoria dei Castrocucco, i quali, quando lasciarono Albidona (1723), lo passarono ai nuovi feudatari, che erano pure imparentati con i Castrocucco: i Mormile, ai quali apparteneva il Duca di Campochiaro, l’ultimo feudatario del paese.
Il Campochiaro, che era ministro e ambasciatore di Napoleone, forse non è mai venuto in Albidona, ma avrebbe mandato ad
amministrare il suo feudo alcuni suoi agenti o fittavoli, e forse anche creditori: i signori Chidichimo, che dall’Albania erano giunti a Napoli proprio durante il periodo degli Aragonesi. Certamente, gli agenti del Duca, all’inizio abitavano nel castello dei Castrocucco. Successivamente, quando nel 1817 acquistarono, o ebbero in concessione, il Ducato di Campochiaro, i Chidichimo divennero anche proprietari di quella costruzione. Infatti, il famoso Magazzino, attuale abitazione di Giuseppe De Stefano, faceva parte dell’antico castello.
Cosa avvenne, dopo l’abbandono del Castrocucco e del Campochiaro? Anche qui si può avanzare un’ipotesi che non crediamo sia campata in aria: visto che questi edifici erano ormai abbandonati, e forse anche inabitabili, i Chidichimo decisero di costruire, non lontano dalla fortezza, un nuovo palazzo, che anche oggi porta il nome di quella famiglia; certamente, usarono le pietre del castello ormai in rovina, e lasciando intatto soltanto il citato
Magazzino che poi fu adibito a deposito di derrate alimentari provenienti dai loro fondi di Marràca, Puzzoianni, Manca del lacco, Coppone, Maristella e San Dòdaro.
Il castello di Albidona, che è scomparso come quelli di Nocara e di altri che si trovavano nei vari paesi di Calabria, era stato costruito nel punto più alto e suggestivo del paese. Era visibile non solo da tutti i lati del centro abitato, ma anche da tutti gli altri comuni che
circondano Albidona. Ad est, il ripido e profondo costone che scende, dopo la “timpa” di San Nicola e San Rocco, fino alla fiumara Avena; a Nord, dalle balze di santa Maria del monte (o Manca), ad est, dall’altra vallata boscosa che sprofonda nel canale Joràca (o Filliroso), fino a raggiungere l’altra fiumara del Saraceno; a Sud, da un’altra vallata, dove si allunga lo stesso centro abitato, che alcuni hanno inteso identificare con l’antica Leutarnia di Licòfrone e Sytrabone. Oppidum vetustum lo dice Barrio; castello antichissimo, traducono il Marafioti, il Barrillaro ed altri.
Primo documento. La ricerca storica sul Castello di Albidona continua; infatti ci sono altre tre fonti che abbiamo rinvenuto in questi ultimi anni: nella grande biblioetca dell’abbazia benedettina di Monte Cassino è conservato il manoscritto del capitano filospagnolo Francesco Capecelatro, al servizio di re Filippo IV, che fece sanguinosamente punire i filofrancesi della Calabria. Era antispagnolo anche il Castrocucco di Albidona. Lo leggiamo in una cronaca del 1647-70: l’armata spagnola risparmiò la vita al feudatario Castrocucco, ma lo portò nelle prigioni di Napoli. Al Sud spadroneggiavano i Vicerè spagnoli; tra il 1480-86 c’era stata la famosa Congiura dei baroni, capeggiata da Antonello Sanseverino, ma gli Aragonesi la repressero col sangue. Anche gli Spagnoli fanno terra bruciata. La cronaca della repressione la scrive lo stesso Capecelatro, fedelissimo di re Filippo, che lo fa Governatore delle armi di Calabria Citra.
Il suo manoscritto pubblicato nel 1854, quasi mai citato dagli storici più accreditati, è conservato nell’Archivio dell’abbazia benedettina di Montecassino:
Diario dei tumulti del popolo napolitano contro i ministri del re e la nobiltà di essi. I fatti raccontati riguardano gli anni 1647-48- 1670.
Il Capecelatro ammette che “i popoli sono afflitti per mancamento di pane” e promette che “il nostro Re contrastarà le varie ribellion
i del Regno”. Quindi, comincia la durissima repressione: il capopopolo campano Domenico Colessa, soprannominato Papone, viene messo a morte, molti altri congiurati “sono collati e astretti a dire la verità e poi, tutti inforcati”.
Il Capecelatro arriva in Cosenza, raggiunge Lungro, dove gli albanesi si erano ribellati ai riscuotitori della tasse “ma il marchese di Fuscaldo riuscì a castigarli, a nome degli Spagnoli”. A Montalto, a Sa Donato di Ninea e a Cassano avvennero altri impiccagioni e imprigionamenti.
Quindi fu la volta di Oriolo, perché – come scrive anche lo storico locale Giorgio Toscano – nel dicembre del 1647, i popolani guidati da Paolo Vivaqua, Camillo e Nicola Liguori (notaio), Giovanni Andrea Andreasso e altri con l’aiuto del tursitano
Pisciaròzzolo, assaltarono il castello del marchese Don Alessandro Pignone del Carretto., ma anche qui fu domata la rivolta. Vivacqua riuscì a scappare, ma il notaio Liguori venne arrestato e portato nelle prigioni di Cerchiara”, dove il principe Pignatelli “lo fece morire strozzato alla forca”.
Lasciata Oriolo, Don Francesco Capecelatro si diresse verso il castello della vicina Albidona, dove si era chiuso il feudatario don Rinaldo Castrocucco, che non venne impiccato, ma fu portato a Napoli e non gli fu più permesso di rivedere né il suo castello e né il suo feudo di Albidona. Pochi anni dopo, suo figlio Gianbattista passò con gli Spagnoli e ritornò in paese.
Secondo documento. L’abbiamo trovato nella Biblioteca della Torre di Albidona. E’ nella Platea del 1698, dove sono elencati tutti i beni del territorio comunale di Albidona. Le carte dell’Archivio Chidichimo ci forniscono un’altra interessante notizia, che seppur breve, smentisce coloro i quali, senza leggere mai un libro o un documento sul loro paese, continuano ad affermare che “sul castello non esistono più tracce”. Per dire la verità, le ultime tracce sono state cancellate col cemento armato. Nelle carte della Biblioetca è incluso un Notamento dei beni dell’ex duca di Campochiaro, che passa la proprietà ai Chidichimo. Si tratta di un atto del notaio Antonio Silvestri, di Amendolara, rogato il 19 settembre del 1872: è qui che compare la presenza del Castello di Rinaldo Castrocucco, signore di Albidona. Nella breve descrizione apprendiamo che il castello è quasi scomaprso: “Antico castello diruto, in esso esistono case sei più membri; Palazzotto rinnovato da mazzi in membri 9, magazzeno della capienza di tomola mille, antica stalla, oggi diruta. Nella contrada detta il Piano di Vilotta (?) trappeti macinati con due conci membri. Nella contrada di Piano di Franco per commodo di zappino, soprano e sottano membri 2; forni esistenti membri tre nel castell9, altre case in Piazza e Salvatore (San Salvatore), nel Fronte dell’Arena antico forno con membro uno”.
Terzo documento-Il Catasto onciario del 1745. il Castello dei Castrocucco, che appartiene ancora alla Camera Baronale, è quasi in rovina; resta la cisterna d’acqua, “un grande magazzino per conservar grano e una lunga stalla per i cavalli”. Ma il Marchese possiede anche altre case che stanno vicino al Castello e sono date in affitto a Leonardo Golia, a Pietro Scillone e alla vedova Anna di Drogo”


Fonte: Giuseppe RIZZO

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