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Le Feste tra Sacro e Profano

Storia e Tradizioni

Le feste cicliche di Albidona
(religiose e profane)

Le feste dei nostri paesi non scompaiono soltanto per le innovazioni liturgiche o per le variazioni dei calendari, come per esempio è recentemente avvenuto per la soppressione di alcune festività, civili e religiose, da parte dello Stato italiano, ma anche per l’evoluzione dei tempi e dei costumi che caratterizzano una data comunità.
In tempi remoti, e anche in quelli più recenti, le feste (
religiose e profane) erano più diffuse, più frequentate e più autenticamente vissute.
In questa ricerca restringeremo la nostra indagine per parlare soltanto delle vecchie feste che si celebravano in Albidona (CS).
Diciamo, “si celebravano”, perché molte di esse sono scomparse da tempo, ma ci vengono ancora ricordate dai nostri vecchi che le vissero pienamente, fin dai tempi della loro giovinezza.
Qualcuno di questi nostri anziani è solito dire: “Ai miei tempi si viveva nella miseria e nella fame ma si riusciva a stare contenti.
Per tutto l’anno, tranne le circostanze di lutto, nella commemorazione dei Defunti e nel periodo della Quaresima, si divertiva con balli, suoni e canti”.
Dal racconto di questi nostri testimoni delle antiche tradizioni locali apprendiamo che le vecchie feste erano veramente frequenti e continue; si susseguivano, l’una dopo l’altra, per tutti i dodici mesi dell’anno. Per questo, noi le chiamiamo
feste cicliche. Infatti, esse corrispondevano ai vari cicli o stagioni dell’anno.
Perché si celebravano tutte queste feste ? Ce le descrivono gli stessi nostri interlocutori, i quali rimproverano anche i figli e i nipoti, perché costoro non saprebbero “fare le feste”.
Dal racconto di questi nostri testimoni delle antiche tradizioni locali apprendiamo che le vecchie feste erano veramente frequenti e continue; si susseguivano, l’una appresso all’altra, per tutti i dodici mesi dell’anno. Per questo, noi le chiamiamo
feste cicliche. Infatti, esse corrispondevano ai vari cicli o stagioni.
Le feste dei nostri paesi non scompaiono soltanto per le innovazioni liturgiche o per le variazioni dei calendari, come per esempio è recentemente avvenuto per la soppressione di alcune festività, civili e religiose, da parte dello Stato italiano, ma anche per l’evoluzione dei tempi e dei costumi che caratterizzano una data comunità.
In tempi remoti, e anche in quelli più recenti, le feste (
profane e religiose) erano più diffuse, più frequentate e più autenticamente vissute.
In questa ricerca restringeremo la nostra indagine per parlare soltanto delle vecchie feste che si celebravano in Albidona (CS). Diciamo, “si celebravano”, perché molte di esse sono scomparse da tempo, ma ci vengono ancora ricordate dai nostri vecchi che le vissero pienamente, fin dai tempi della loro giovinezza.
Qualcuno di questi nostri anziani è solito dire: “Ai miei tempi si viveva nella miseria e nella fame ma si riusciva a stare contenti. Per tutto l’anno, tranne le circostanze di lutto, nella commemorazione dei Defunti e nel periodo della Quaresima, si divertiva con balli, suoni e canti”.
Perché si celebravano tutte queste feste ? Ce le descrivono gli stessi nostri interlocutori, i quali rimproverano anche i figli e i nipoti, perché costoro non saprebbero “fare le feste”.
Dal racconto di questi nostri testimoni delle antiche tradizioni locali apprendiamo che le vecchie feste erano veramente frequenti e continue; si susseguivano, l’una appresso all’altra, per tutti i dodici mesi dell’anno. Per questo, noi le chiamiamo
feste cicliche. Infatti, esse corrispondevano ai vari cicli o stagioni.
Ecco una breve rassegna: la prima festa dell’anno era il
…. Capodanno. Esso era considerato quasi un prolungamento del Natale, che terminava col vecchio anno, ma dava inizio all’annata successiva.
Per le classi subalterne, il Capodanno, se era passato e festeggiato felicemente, faceva sperare buoni auspici per tutti i dodici mesi che lo seguivano. Buoni auspici per la salute, per la famiglia e per il lavoro.
Anche
la Stella dell’Epifania (a nott’a Stell) era buon presagio per l’anno che cominciava. Poi, subito Carnevale, che iniziava, come in altri paesi, il 17 gennaio, giorno di Sant’Antonio Abate (detto sant’Antuòno): Sant’Antuòne / masc-chere’e ssuòne, dicono, ancora oggi in Albidona.
Cioè, con maschere e suoni, iniziava la grande baldoria del carnevale, che terminava nell’ultimo martedì del mese di febbraio, con la famosa “
sera’a posèra”.
Durante il Carnevale si ballava, si cantava, si suonava e si mangiava allegramente, con abbondanti scorpacciate di vino e carne; anche se a quei tempi vi fosse tanta miseria.
Si riusciva, tuttavia, ad acquistare un po’ di carne per i maccheroni di casa della domenica. Chi non comprava carne dal macellaio si forniva di uccellini presi nelle trappole (
i chiàncole): venivano cotti a stufato e il loro sugo sparso sui maccheroni era squisitissimo.
Ogni domenica si vestivano le maschere. Esse formavano delle squadre e giravano per le strade del paese, esibendosi in caratteristici vestiti e mettendo in scena i “Misi”, le “Ghivannàre” e altri pezzi di folklore locale, ormai scomparsi. La gran baldoria terminava, come abbiamo detto, nella famosa sera della “
Posèra”, per ricordare il pecoraio che non fece in tempo a tornare per l’ultima domenica di febbraio. Quindi si dovette prolungare la festa del carnevale per la sera dopo (post seram), cioè il martedì dopo l’ultima domenica di febbraio.
Con la fine di Carnevale iniziava il digiuno, come preparazione della Pasqua. Non si doveva mangiare più carne, salsiccia e altri salami che si facevano nelle nostre case. Si era già in Quaresima: le donne si riunivano tutte al focolare di una vicina di casa, si “ripassavano” le canzoncine di Pasqua, cantandole ad alta voce e raccomandavano ai nipoti e agli uomini di non “
cammaràre”, di non mangiare carne.

Anche questa Quaresima era periodo di festa. Era una festa, una parentesi religiosa per prepararsi alla Passion e; per purificarsi, per meditare e per fare nuovi e buoni propositi di vita esemplare e laboriosa. La Quaresima e la Pasqua erano insomma le feste dell’anima, dell’espiazione e anche della preghiera propiziatoria, per il decorrere di un altro felice anno di lavoro e di pace.
Il digiuno quaresimale terminava il Sabato santo, appena suonava la “
gloria” della Resurrezione di Cristo. La gente ringraziava commossa il “Signore” e dava inizio ad un’altra baldoria, come Carnevale, con balli, suoni e canti e con abbondanti libagioni di vino locale.
Appena trascorsa la Pasqua (ma certe volte anche prima), le nostre donne, a squadre, andavano a zappettare il grano nelle masserie dei proprietari terrieri di Albidona, dei contadini più o meno benestanti, dove soggiornavano e pernottavano per diverse settimane. La sera, al lume della
teda, si ballava e si cantava, insieme ai giovanotti del paese che venivano a trovarle per trascorrere un’allegra serata, giacché tra di esse c’erano spesso anche signorine e vedove i cui mariti erano partiti da tempo per l’America.
Per il 19 marzo si aspettava la festa di
San Giuseppe: famose le panelle, bianche e profumate che faceva donna Assunta Troiano, moglie di don Salvatore Dramisino.
Quaranta giorni dopo Pasqua, nell’Ascensione c’era la donazione del latte, da parte dei massari che possedevano il bestiame. Con il latte si cucinano gli squisiti
maccarùne cu llu guatt.
Quasi tutto il mese di maggio era dedicato ala festa di
San Michele Arcangelo. Si sentiva l’ebbrezza della primavera, della campagna già promettente di ricchezza e della festa del Santo Protettore che si celebrava, come oggi, l’8 di maggio. Erano allegri soprattutto i ragazzi, i quali, il giorno prima della festa si recavano a frotte nella “timpa” di San Rocco, raccoglievano deiramoscelli si acero (u màie), e quando ritornavano in paese li appendevano alle porte, proprio come ricorda il Frazer per i ragazzi della Svezia: “il primo maggio in alcune parti della Svezia, i ragazzi fanno il giro di tutte le case cantando canzoni di maggio, il cui ritornello è una preghiera per avere bel tempo, raccolto abbondante… (19)
Quindi, quel ramoscello di “majo”, che non è altro che
l’albero di maggio ricordato dallo stesso Frazer, e che è già scomparso dalla nostra tradizione, era un antico retaggio, comune a tutti i paesi del Mediterraneo dove era assai vivo il culto animistico dell’albero.
La festa di San Michele, caratteristica per la sua lunga processione, per l’incanto dei prodotti tipici locali donati dai fedeli, per i falò, per fiaccole di
teda, e per i fuochi d’artificio, era ritenuta la più bella e la più allegra di Albidona”.


Il giorno dopo, seguiva quella di S. Francesco di Paola, ora quasi scomparsa.
Nel mese di giugno si festeggiava, oltre al Corpus Domini, con fiori e con le più belle coperte dotali stese sui balconi, soprattutto Sant’Antonio da Padova. Bella questa festa, per l’albero della cuccagna (a ndìnna) dove si appendevano poveri capretti e galli vivi, salami, trecce di fischi secchi, formaggio e uova marce da buttare alle signore e ai “signori” che si divertivano dai balconi e dalle finestre della case vicine.
Dopo Sant’Antonio, iniziava la “festa” della mietitura, perché la compagnia dei mietitori, accompagnati da un caporale, stava per settimane intere nelle masserie, specie quelle dei Chidichimo, quasi per tutto il mese di giugno. Mentre si mieteva, si cantava e si scherzava, come se si onorasse l’antica dea della madre Terra e della fertilità. Appresso ai mietitori stava un suonatore di organetto o di zampogna, il quale aveva l’obbligo di sapere bene usare la zampogna (i suone’a chiave) e di tenere allegri gli altri suoi compagni che lavoravano contenti sotto il sole di giugno e sotto l’occhio vigile del padrone. Alla fine della mietitura si praticava il gioco del falcetto o della lepre. Sin fingeva di catturare la lepre, la si legava e si portava davanti al padrone, il quale offriva carne di montone e vino.
Qualcuno ricorda la festa dio San Giovanni del 24 giugno; quella di San Pietro (29 dello stesso mese), si è festeggiata fino agli anni ’80.
Luglio e agosto erano le “feste” della trebbiatura; si cantava e si ballava, la sera, nell’aia e si
aspettavano le feste della Madonna della pietà, della Madonna del Càfaro e di San Rocco (5, 15 e 16 agosto). A settembre si celebrava la festa di San Donato e nella prima domenica di ottobre, quella della Madonna del rosario. Come si vede, le feste religiose si alternavano quasi senza interruzione, con quelle mondane, cioè quelle del lavoro dei campi. Poi seguivano anche i pellegrinaggi di devozione alla Madonna della catena di Cassano, alla Madonna degli infermi di Francavilla Marittima, alla Madonna delle armi di Cerchiara e alla Madonna del Pollino, in Lucania. Lì, si andava a piedi e ci si divertiva, con un senso di liberazione e di serenità, per ritornare subito a lavorare e a prepararsi per la semina e la vendemmia, quasi già alle porte.
Tutto ottobre era dedicato alla semina. Agli inizi c’era la breve parentesi di Tutt’i santi e la commemorazione dei Defunti (u jurne’i Muort). Il primo di novembre (Sant-Martìne) si spillava il vino e per questo si era più allegri degli altri giorni.
Ma chi non spillava alal festa di Titti i s, assaggiava il vino nuovo nel giorno dell’Immacolata (a Madonna’u Cummènte -8 dicembre), quando si iniziava anche ad ammazzare i maiali. Il 13 dello stesso mese era la festa di Santa Lucia e si mangiavano “i coccìe”, grano bollito nella pignatta e condito con miele. Anche questa era una festa “ricordante”, cioè degna di essere menzionata. Ora, i coccìe sono quasi scomparsi. Natale. Per tutto il mese di dicembre (detto
comunemente u mese’i Natale) si ammazzavano ancora i maiali. Quindi la festa era intensa e più continua dell’anno. Dal 22 al 23 sera si girava per le case degli amici e dei vicini, perché si dovevano festeggiare i “fritti” (crispelle, cannalette, frascelle e cannarìcule), ubriacandosi con vino nuovo e casereccio.
Ma la festa più bella e più attesa era (ed è) la sera della vigilia di Natale, perché si mangiano le
“nove cose”. Si andava alla messa di mezzanotte e si portavano serenate nelle case dei parenti e degli amici. Ma terminata questa grande nottata, si pensava nuovamente a un altro maiale da uccidere e a terminare la raccolta delle olive, da portare poi subito al trappeto, la cui grande “macina” era tirata da una mula, da un asino o da un cavallo bendato.
Pure la raccolta delle olive era una specie di festa campestre. Le donne raccoglitrici, come le
zappettatici del grano e come i mietitori di giugno, soggiornavano in campagna per intere settimane.
Anche in questa circostanza, durante la raccolta e nelle soste notturne, ci si divertiva a cantare e a ballare sotto il chiarore della teda.
La nostra gente, sebbene lavorasse più delle ore consentite e scontasse quasi sempre in natura, riusciva a liberarsi e a compensare la sua infelicità e la sua miseria con i canti, i balli, i suoni e le feste “continue”, che noi chiamiamo “feste cicliche” dell’anno.
(Appunti per la tesi di Titti Gioia 26.3.1979).

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