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Leggenda di Calcante

Storia e Tradizioni


L'indovino Calcante e la "Fontana fetente"


Questo paese ha origini antichissime ed è legato alla storia e alla leggenda. Una leggenda assai suggestiva è quella che parla di alcuni profughi della guerra di Troia, approdati sulla costa ionica, duemila anni fa. Con essi c'era anche l'indovino Calcante.
Tra quei Greci avrebbe fondato il paese di Leutarnia chi sarebbe stato capace di indovinare il numero esatto e il sesso dei porcellini di una scrofa già pronta a sgravarsi, oppure il numero dei semi contenuti in un fico.
Calcante, insuperabile per la sua chiaroveggenza, venne sconfitto da un altro indovino, meno famoso di lui, e per questo sarebbe morto di crepacuore, trovando "in questi lidi" degna sepoltura, scrive Giovanni Fiore da Cropani.
La leggenda di Calcante è collegata anche alla sorgente di acqua sulfurea, detta comunemente "fontana fetente", ancora esistente nel bosco Potente: quest'acqua sarebbe diventata di zolfo perché "si mescolò col sangue dei Giganti Flegrei, uccisi da Ercole", proprio nel bosco di Leutarnia.
Anche l'erudito Licofrone (del 3° sec. A.C.), nel suo poema Alessandra, e Strabone, notissimo storico e geografo greco (63 a.C.-19 d.C.), nella sua Geografia, parlano di Leutarnia, che tra l'altro, è stata una delle 25 città confederate all'antica Sibari. Ma questo nome se lo contendono altri paesi.

Le antiche abbazie

Comunque, pur non volendo citare la bella leggenda di Calcante e di Ercole, bisogna concludere che la storia di questo piccolo paese dell'Alto Jonio cosentino, "incastonato in una bianca roccia e cinto da tre conici monti", è fatta anche di documenti che bisogna citare, soprattutto per evitare le inesattezze, dove spesso incorrono quelli che vogliono fare ricerca, copiando dagli altri, senza tenere conto della opportuna verifica delle fonti, degli errori e delle amenità che ancora vengono diffusi.
I documenti scritti risalgono attorno al Mille. Come si legge in due pergamene datate 1106 e 1202, conservate nella Badia di Cava dei Tirreni, dalla quale dipendevano tutti i monasteri calabresi del medioevo, nella vallata del Càfaro e sull'altura di Piano Senise c'erano alcune fiorenti abbazie basiliane che portavano il nome di Santa Venere (o Santa Veneranda), Sant'Angelo e Santa Maria del Càfaro.
Nel 1276, come attesta un altro documento, la Cedula subventionis angioina, Albidona contava 2.260 anime (oggi, siamo scesi a 1.800 !). In un altro documento di fonte vaticana, del 1324, risulta che in questo periodo c'era già la chiesa arcipretale intitolata a S. Michele Arcangelo, con i suoi presbiteri.
Dalle vicende religiose, che vanno dal medioevo al Settecento, è bene passare in rassegna il documentato Regesto vaticano di Padre Francesco Russo, che cita spesso di Albidona.
Gli altri storici, da Gabriele Barrio a Gerolamo Marafioti, a Giovanni Fiore, da Lorenzo Giustiniani a Nicola Leoni e a Vincenzo Padula, dicono prima Auvidona, Lavredone, Levidona e poi Albidona.
Ma che significa la parola Albidona ? Alba vuol dire anche altura (1). Il Padula scrive Alba-don, fuoco, e quindi, terra di origine vulcanica.
Invece, gli storici più "poetici" dicono: Albidona, il paese che dona l'alba, Albidona dall'alba dorata: ecco perché alcuni la chiamano Montedoro, o anche paese dei doni bianchi: la candida neve che arriva dal Pollino, i bianchi prodotti della pastorizia, ma soprattutto la bianca aurora che la bacia nel primo mattino di primavera.
Dal medioevo all'800, la Terra di Albidona subì l'oppressione dei vari feudatari. Albidona fu sotto varie signorie feudali: nel 1291 c'era Corrado D'Amico, l'ultimo "signore del paese" fu Ottavio Mormile, che fu pure ministro di Napoleone, e da noi conosciuto come il "Duca di Campochiaro" (1806). I Chidichimo, provenienti dall'Albania, erano agenti del Campochiaro e "regnarono" fino al 1950.
Quella lunga oppressione feudale provocò i famosi fatti del 1848, quando una ventina di antiborbonici locali furono arrestati, alcuni dei quali morirono nelle prigioni di Nisida e Procida.



Fonte: Giuseppe Rizzo


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